Rembrandt, La lezione di anatomia del dottor Tulp (1632)
Che nella
lezione di anatomia tenuta ad Amsterdam fosse in gioco ben più che
la conoscenza dettagliata degli organi interni del corpo umano,
emerge chiaramente dal carattere di cerimonia assunto dall’autopsia
del morto nella raffigurazione di Rembrandt – i chirurghi sono in
tenuta di gala, e il dottor Tulp ha persino il cappello in testa –,
così come dal fatto che, a conclusione della procedura autoptica, si
tenne un banchetto solenne, in un certo senso simbolico. Quando oggi
al Mauritshuis ci fermiamo davanti al quadro della Lezione di
anatomia di Rembrandt, che misura oltre due metri per uno e
mezzo, veniamo a trovarci alla stessa distanza di coloro che avevano
seguito le varie fasi della dissezione al Waaggebouw e crediamo di
vedere ciò che avevano visto quegli altri: disteso in primo piano,
il corpo verdastro di Aris Kindt con il collo spezzato e il petto
spaventosamente inarcato nella rigidità della morte. E tuttavia non
si sa se qualcuno abbia davvero visto quel corpo, in quanto la
tecnica della dissezione anatomica, che giusto allora stava nascendo,
serviva anche e soprattutto a rendere invisibile il corpo macchiatosi
di colpa. Non senza ragione gli sguardi dei colleghi del dottor Tulp
non sono rivolti a quel corpo in quanto tale, ma sfiorandolo appena
si concentrano piuttosto sull’atlante anatomico spalancato, dove la
raccapricciante fisicità è ridotta a un diagramma, a uno schema
dell’uomo, come quello che aveva in mente l’appassionato
dilettante di anatomia, René Descartes, probabilmente anche lui fra
gli spettatori al Waaggebouw quella mattina di gennaio. Com’è noto
Descartes, scrivendo uno dei più importanti capitoli nella storia
della sottomissione, insegnava che occorre distogliere lo sguardo
dalla carne, in quanto incomprensibile, e rivolgerlo alla macchina,
già installata in noi, ovvero a ciò che si può senz’altro
comprendere, utilizzare integralmente per il lavoro e,
nell’eventualità di un guasto, riparare o gettar via. Alla
singolare esclusione del corpo, messo comunque in bella mostra,
corrisponde altresì il fatto che se lo esaminiamo più nel
dettaglio, il tanto celebrato realismo del dipinto di Rembrandt si
rivela solo apparente. Contro ogni consuetudine, l’autopsia qui
raffigurata non inizia infatti con l’apertura dell’addome e
l’asportazione dei visceri, soggette a putrefare in fretta, bensì
(e anche questo allude forse a un atto di ritorsione) col sezionare
la mano che si macchiò del reato. E questa mano è un caso affatto
particolare. Non solo presenta una sproporzione addirittura
grottesca, se paragonata a quella più vicina all’osservatore,
ma è altresì del tutto a rovescio dal punto di vista anatomico. I
tendini scoperti che, in base alla posizione del pollice, dovrebbero
essere quelli del palmo della mano sinistra, sono invece quelli
corrispondenti al dorso della destra. Si tratta dunque di
un’operazione puramente scolastica, compiuta senz’ombra di dubbio
sulla scorta di un atlante anatomico, in seguito alla quale il
quadro, dipinto per il resto – se si può dir così – dal vivo,
si ribalta nel più grossolano degli errori proprio nel punto da cui
si diparte il suo significato, ovvero là dove sono già state fatte
le incisioni. Ma che Rembrandt sia incorso in un errore non è
plausibile. Anzi, la forzatura nella composizione mi sembra
intenzionale. Quella mano deforme è il segno della violenza che ha
investito Aris Kindt. Con lui, con la vittima, e non con la gilda dei
chirurghi che gli ha commissionato il lavoro, si identifica il
pittore. Solo lui non manifesta la rigidità cartesiana nello
sguardo, solo lui vede davvero il corpo verdastro, esanime, scorge
l’ombra nella bocca semiaperta e sopra l’occhio del morto.
(W.G. Sebald, "Gli anelli di Saturno")