mercoledì 2 ottobre 2013

La lezione di Sebald

Rembrandt, La lezione di anatomia del dottor Tulp (1632)

Che nella lezione di anatomia tenuta ad Amsterdam fosse in gioco ben più che la conoscenza dettagliata degli organi interni del corpo umano, emerge chiaramente dal carattere di cerimonia assunto dall’autopsia del morto nella raffigurazione di Rembrandt – i chirurghi sono in tenuta di gala, e il dottor Tulp ha persino il cappello in testa –, così come dal fatto che, a conclusione della procedura autoptica, si tenne un banchetto solenne, in un certo senso simbolico. Quando oggi al Mauritshuis ci fermiamo davanti al quadro della Lezione di anatomia di Rembrandt, che misura oltre due metri per uno e mezzo, veniamo a trovarci alla stessa distanza di coloro che avevano seguito le varie fasi della dissezione al Waaggebouw e crediamo di vedere ciò che avevano visto quegli altri: disteso in primo piano, il corpo verdastro di Aris Kindt con il collo spezzato e il petto spaventosamente inarcato nella rigidità della morte. E tuttavia non si sa se qualcuno abbia davvero visto quel corpo, in quanto la tecnica della dissezione anatomica, che giusto allora stava nascendo, serviva anche e soprattutto a rendere invisibile il corpo macchiatosi di colpa. Non senza ragione gli sguardi dei colleghi del dottor Tulp non sono rivolti a quel corpo in quanto tale, ma sfiorandolo appena si concentrano piuttosto sull’atlante anatomico spalancato, dove la raccapricciante fisicità è ridotta a un diagramma, a uno schema dell’uomo, come quello che aveva in mente l’appassionato dilettante di anatomia, René Descartes, probabilmente anche lui fra gli spettatori al Waaggebouw quella mattina di gennaio. Com’è noto Descartes, scrivendo uno dei più importanti capitoli nella storia della sottomissione, insegnava che occorre distogliere lo sguardo dalla carne, in quanto incomprensibile, e rivolgerlo alla macchina, già installata in noi, ovvero a ciò che si può senz’altro comprendere, utilizzare integralmente per il lavoro e, nell’eventualità di un guasto, riparare o gettar via. Alla singolare esclusione del corpo, messo comunque in bella mostra, corrisponde altresì il fatto che se lo esaminiamo più nel dettaglio, il tanto celebrato realismo del dipinto di Rembrandt si rivela solo apparente. Contro ogni consuetudine, l’autopsia qui raffigurata non inizia infatti con l’apertura dell’addome e l’asportazione dei visceri, soggette a putrefare in fretta, bensì (e anche questo allude forse a un atto di ritorsione) col sezionare la mano che si macchiò del reato. E questa mano è un caso affatto particolare. Non solo presenta una sproporzione addirittura grottesca, se paragonata a quella più vicina all’osservatore, ma è altresì del tutto a rovescio dal punto di vista anatomico. I tendini scoperti che, in base alla posizione del pollice, dovrebbero essere quelli del palmo della mano sinistra, sono invece quelli corrispondenti al dorso della destra. Si tratta dunque di un’operazione puramente scolastica, compiuta senz’ombra di dubbio sulla scorta di un atlante anatomico, in seguito alla quale il quadro, dipinto per il resto – se si può dir così – dal vivo, si ribalta nel più grossolano degli errori proprio nel punto da cui si diparte il suo significato, ovvero là dove sono già state fatte le incisioni. Ma che Rembrandt sia incorso in un errore non è plausibile. Anzi, la forzatura nella composizione mi sembra intenzionale. Quella mano deforme è il segno della violenza che ha investito Aris Kindt. Con lui, con la vittima, e non con la gilda dei chirurghi che gli ha commissionato il lavoro, si identifica il pittore. Solo lui non manifesta la rigidità cartesiana nello sguardo, solo lui vede davvero il corpo verdastro, esanime, scorge l’ombra nella bocca semiaperta e sopra l’occhio del morto.

(W.G. Sebald, "Gli anelli di Saturno")

1 commento:

  1. In effetti mi rendo conto che non è facile postare un commento se non si conosce bene la materia. Comunque sia, anche a rischio di dire banalità, trovo, non solo il post, ma tutto il blog, molto interessante...e da leggere con cura!

    Un saluto

    Stefano

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